Perché non hai capito la Prima della Scala?
Dedichiamo del tempo a discutere Lady Macbeth del distretto di Mcensk e il destino dell’opera sovietica.
Maestra Chislova
12/11/20252 min read
La nuova stagione della Scala si è aperta con Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Shostokovich, un’opera che non vuole risultare “facile” e che forse non potrebbe esserlo nemmeno volendo. È un lavoro che inquieta, che divide, che costringe lo spettatore a prendere posizione. Ti mette di fronte al desiderio, alla violenza, alla solitudine, e non concede scappatoie.
La storia ruota attorno a Katerina Izmailova, una donna intrappolata in un matrimonio sterile, dentro una casa che sembra più una prigione che un luogo domestico. Quando incontra Sergej, vede per la prima volta un varco verso la libertà. Da quel momento le sue scelte diventano sempre più radicali, spinte da una passione feroce e da una ribellione che è insieme personale e sociale. I sentimenti dominano ogni scena: la brutalità, la dolcezza improvvisa, la disperazione che cresce fino a consumarla. Shostokovich non copre nulla, anzi espone tutto con una chiarezza tagliente.
La musica amplifica questo mondo emotivo senza tentare di renderlo elegante. L’orchestra respira con Katerina, le sta accanto come un organismo vivo. Alterna lirismo e sarcasmo, violenza sonora e momenti di intimità quasi dolorosa. Alcuni passaggi sembrano anticipare il linguaggio cinematografico, altri sono satire impietose della società russa, altri ancora si avvitano in esplosioni orchestrali che lasciano storditi. Chi si aspetta un melodramma tradizionale rischia di perdersi: Shostokovich non accompagna, non consola, non “decora”. Dice la verità.
Per capire davvero il peso di quest’opera bisogna ricordare cosa accadde dopo la sua nascita. Shostokovich compose Lady Macbeth tra il 1930 e il 1932, su libretto suo e di A. Preys. L’opera debuttò nel 1934 a Leningrado e a Mosca con un successo enorme, quasi duecento recite in due anni, e un’accoglienza internazionale calorosa. In Europa e negli Stati Uniti venne interpretata come il segno di un nuovo teatro musicale sovietico, energico e moderno.
Poi arrivò il 1936. Stalin assistette a una recita al Bolshoi e, secondo molti testimoni, uscì cupo, contrariato. Qualche giorno dopo, senza firma, il quotidiano Pravda pubblicò l’articolo “Confusione invece che musica”. Era un attacco diretto, brutale: si accusava l’opera di formalismo, di oscenità, di essere inadatta al popolo. In un attimo l’opera scomparve dai teatri sovietici. Era un verdetto politico mascherato da critica musicale. Da quel momento Shostokovich, fino ad allora brillante polemista, tacque. Rispose solo con la musica: la Quinta sinfonia, nel 1937.
Questi eventi segnano la chiave per leggere tutto ciò che Shostokovich ha fatto e detto negli anni successivi. Da quel momento il suo linguaggio pubblico diventò secco, enigmatico, pieno di ironia amara. Ma Lady Macbeth resta la sua opera più audace, quella in cui non arretra di fronte a nulla.
Arriviamo alla Prima della Scala del 2025, un ritorno integrale alla versione originale del 1932. La direzione musicale affronta senza paura le asperità della partitura e ne mette in rilievo la potenza emotiva. La regia sceglie un’ambientazione essenziale, quasi soffocante, che permette di leggere Katerina non come un simbolo ma come una donna del nostro tempo: desiderosa di libertà, compressa, osservata, giudicata. Il risultato è una produzione che non solo racconta la Russia di ieri, ma parla direttamente alle nostre inquietudini di oggi.
Forse lo smarrimento di parte del pubblico nasce proprio da qui. Ci si aspetta che un’opera “alla Scala” conforti, che sollevi, che accompagni. Shostokovich invece chiede di guardare senza filtri, di lasciarsi disturbare, di accettare che il teatro possa ferire più che guarire.
Lady Macbeth non è fatta per far star bene. È fatta per far pensare. Per costringere a guardare ciò che di solito si evita. Per ricordare quanto potente possa essere l’opera quando non ha paura di essere scomoda.